La Triennale

Il problema dell’arte

Dal punto di vista del Rotary Club Milano, il mondo dell’arte non possiede un carattere puramente estetico o spirituale. La gestione del patrimonio culturale ha infatti una ricaduta significativa sulla vita economica del paese. Nel 1925 il socio Giovanni Beltrami, direttore dell’Accademia di Brera, osservava che l’interesse del grande pubblico per l’arte sembrava in calo. Le cause di questa crisi erano state individuate in diversi fattori. Da una parte lo stile di vita in una città industrializzata non lasciava molto tempo libero per coltivare interessi artistici o di altro tipo; dall’altra si stava assistendo ad uno scollamento tra il mondo dell’arte e i cittadini. In altre parole, secondo Beltrami, “l’arte che si faceva non era fatta più per il popolo”. Gli artisti che seguivano direttive diverse si erano allontanati dall’”anima popolare”. Di conseguenza, un semplice cittadino avrebbe potuto considerare la propria opinione, rispetto ad un’opera, come un errore di valutazione, nutrendo l’impressione di non aver capito nulla. Questo fraintendimento poteva demotivare le persone che smettevano perciò di frequentare le esposizioni. Il principale risultato di questo disinteresse era di carattere economico. Gli introiti provenienti dalla vendita dei biglietti d’ingresso alle Esposizioni avevano subito una drastica diminuzione. Per risolvere questo problema, il socio auspicava un ritorno a forme espressive più tradizionali da parte degli artisti, per limitare il senso di disorientamento del pubblico e stimolare una maggiore frequentazione delle sale delle mostre. Tuttavia questo “ritorno” non voleva essere inteso come una cristallizzazione di forme passate, ma come un adattamento di tali formule alle condizioni della vita e della cultura contemporanea.

A tal proposito, i soci milanesi erano stati invitati da Beltrami a visitare l’Esposizione della Permanente che testimoniava una rappresentazione di quelle che erano considerate “le forme della bellezza”.

Palazzo della Permanente

 

Ora, questo povero diavolo che non ha una preparazione artistica né uno spirito critico proprio, finisce col dire; “Ma io devo dunque essere una gran bestia che non ci capisco più niente”; ed alle Esposizioni non ci torna più. Per cui, il problema economico finisce per essere acutizzato da questa specie di stato di assenza di quella che è la grande opinione pubblica. (…) E se voi, come vi auguro e vi incito a fare, avrete la bontà di andare all’Esposizione aperta ora nel Palazzo della Permanente, io credo che questa impressione di una specie di ritorno a quelle che sono sempre state per noi le forme della bellezza, sia molto evidente. Ed io mi auguro che questo sia il principio di una ripresa delle nostre buone tradizioni artistiche, le quali non vogliono dire la cristallizzazione in formule ormai esaurite, per così dire, ma vogliono dire un progressivo sviluppo di queste formule, in relazione alle attuali condizioni dei nostri spiriti e della nostra vita sociale”.

Relazione settimanale n.45, 17 novembre 1925

“Ed io credo anche che una ragione dell’assenza del grande pubblico dalla nostra arte, dipenda dal fatto che l’arte che si fa non è più fatta per il popolo. I nostri artisti con direttive tanto diverse di un tempo, spesso impreviste, e sconcertanti, hanno finito per allontanarsi dall’anima popolare, insomma, il popolo non ci capisce più niente. Se va ad una delle nostre esposizioni e si trova davanti a un quadro che magari gli piace, legge il giorno dopo nei giornali che quella è roba che non si deve neanche più guardare. Oppure si trova davanti ad un’opera che per lui è come un pugno nello stomaco, e poi legge l’articolo di un critico, il quale gli dice che quella è la vera forma dell’arte rappresentativa del momento attuale e che bisogna incoraggiarla ed esaltarla.

Italia romana Carlo Carrà

1927: La Biennale di Monza

Nel 1927 il socio Alessandro Mazzucchelli riferiva rispetto all’Esposizione Biennale di arti decorative di Monza. In questo caso la gestione veniva aspramente criticata. L’Esposizione sembrava infatti abbandonata a sè stessa, mal curata, e non valorizzata da un punto di vista educativo e sociale. Le responsabilità di queste inadeguatezze era imputata in modo uguale alle due città di Milano e di Monza, le quali non consideravano le biennali per la loro funzione educativa, e di occasione di lavoro. Secondo il socio, il Consorzio Milano-Monza-Umanitaria avrebbe dovuto prendere esempio dall’Ente Fiera Campionaria per correggere gli errori commessi, così come il Comitato della Fiera avrebbe dovuto preoccuparsi di promuovere l’educazione e il buon gusto in ogni ramo dell’arte industriale.

Manifesto Biennale di Monza 1923

Allegato al bollettino n.14, 11 ottobre 1927

“Dichiaro subito che la Villa Reale e il grande Parco sono opportunissima sede per la Biennale di arti decorative. Dichiaro che se vi è una critica da fare, data la mancanza di visitatori e il debolissimo favore di ogni classe di cittadini per questa gentile impresa, questa critica va alle due città di Milano e di Monza, che di tutto si occupano e si preoccupano, fuorché di elevare codeste biennali a quella di funzione di educazione, di lavoro e di creazione di arte per le quali furono volute. Questa esposizione è una Cenerentola, se non mal sopportata, mal creata e mal curata dal Consorzio che la gestisce e soffre perciò dei mali e dei danni di cui soffrono le creature abbandonate a sé stesse. (..) Dal momento che faccio il processo al consorzio Milano-Monza-Umanitaria, vorrei anche che esso si accordasse con la presidenza della Fiera Campionaria, per correggere altri e gravi errori. (…). Io penso che il Comitato della grande Fiera di Milano abbia il dovere di difendere l’educazione e di promuovere il buon gusto e la signorilità dell’arte industriale”.

1930: La nuova Biennale di Monza vista da Giò Ponti

Se nelle edizioni precedenti, la Biennale di arti decorative di Monza aveva suscitato delle perplessità, nel 1930 Giò Ponti esprime la sua soddisfazione per l’esito della manifestazione. L’architetto descrive nei minimi particolari la disposizione degli ambienti con i relativi espositori che si presentava ricca e sontuosa. Elenca i nomi degli artisti e delle aziende più prestigiose che avevano contribuito a rendere adeguato lo spazio, tra cui Piero Portaluppi che per l’occasione aveva realizzato un grande cancello di ferro battuto decorato a mano da Achille Funi. Una caratteristica di questa edizione era stata l'”Esposizione Internazionale Orticola”, con un significativo ampliamento dello spazio espositivo all’esterno. Sempre nello spazio esterno, era stato organizzato un “Labirinto pubblicitario” per presentare la migliore produzione di quel settore, che si accompagnava alla mostra di arti grafiche e del libro curata da Mario Sironi. Rispetto alle precedenti, il successo di questa edizione era dovuto alla sinergia di diversi attori. Nella precedente edizione, il socio Mazzucchelli aveva rilevato una mancanza di coordinazione tra le parti coinvolte, che aveva compromesso l’obiettivo di promozione dell’arte e di educazione. In questa edizione del 1927 si era registrata una maggior sinergia. Gli artisti avevano potuto contare sia sulla disponibilità degli Enti pubblici locali sia sulla collaborazione dei professionisti del mondo dell’arte.


Negli stessi giorni si svolgeva in concomitanza la Biennale di Venezia e questa sovrapposizione aveva portato un doppio vantaggio. Da un lato i due grandi eventi si promuovevano reciprocamente e allo stesso tempo venivano dimostrati l’impegno e la competenza degli italiani nell’organizzazione di due manifestazioni così importanti.

Relazione di Giò Ponti Allegato al bollettino settimanale n. 130, 4 febbraio 1930

“Non è ancora spento l’eco delle parole con le quali Margherita Sarfatti nel suo articolo intitolato “l’assente ingiustificato” lamentava la mancanza fra le manifestazioni e fra i doni che hanno accompagnato le auguste nozze del Principe Ereditario, dell’arte moderna italiana. A questa mancanza possiamo dire che l’arte moderna riparerà generosamente con l’ormai vicina manifestazione alla Villa Reale di Monza, la quale si potrà considerare come una ricchissima raccolta di opere moderne alla loro augusta giovinezza dedicata, dico dedicata, in quanto le LL. AA. R.R. sono state a voler inaugurare l’Esposizione di Monza”.

“E passiamo al piano superiore. Ad esso adduce il grande scalone completamente trasformato e che nei vani delle undici aperture che lo coronano, presenterà l’ornamento originale di balconi di ferro battuto disegnati dagli architetti Pulitzer di Trieste, Gigiotti Zanini di Trento, e dagli architetti milanesi Buzzi, Muzio, Marelli, Faravelli, Lancia, Fiocchi, Ponti, Bergomi, disegni che saranno eseguiti dalle ditte Arcari, Strada Labò di Milano. (…). Un monumentale cancello in ferro battuto disegnato da Piero Portaluppi di ingresso al grande vestibolo di questo piano, decorato completamente a figure ad architettura di Achille Funi. (…) “Caratteristica assolutamente nuova di questa Esposizione sarà, come abbiamo detto, un’estensione della mostra nel giardino. In questo si faranno quattro padiglioni e la grande meridiana del Mazzucotelli, il Labirinto pubblicitario, un teatro all’aperto, i giardini delle stagioni, delle arti, le serre e le aiuole della esposizione orticola.

Vere e proprie ville continueranno nel giardino la mostra dell’arredamento: segnaliamo anzitutto la “casa elettrica” architettata ed ordinata dagli architetti Frette, Figini, Pollini, Libera, del Gruppo 7 e dall’architetto Piero Bottoni, la cui realizzazione è dovuta ad un munifico gesto della Società Edison, la quale, per interessamento personale dell’On. Motta, ha concesso al Direttorio dell’Esposizione i notevoli fondi necessari”.

1933: parola d’ordine: modernità. Dall’Esposizione di Monza alla Triennale di Milano

Nell’edizione del 1930 erano già state maturate le condizioni affinché l’Esposizione di Monza cambiasse sede e fosse spostata a Milano: due anni dopo questo progetto diventava realtà. La nuova sede era il Palazzo dell’Arte costruito dalla Fondazione Bernocchi nel Parco Sempione. Da questo momento in poi la Triennale di Milano è un ente autonomo e l’esposizione che si tiene nel 1933 è l’evento internazionale dell’anno. Giò Ponti racconta come un’esposizione di arti decorative sia stata il frutto della collaborazione di autori e di esecutori che contribuirono a “portare un ordine e una dignità”.

“Questi oggetti”, rimarcava l’architetto, creano “un’immagine delle nostre civiltà”. Da questo concetto si sottolineava l’espressione morale e sociale dell’arte, che deve quindi rappresentare nella maniera più alta il progresso di una società. La quinta Esposizione triennale internazionale, quindi, si tiene a Milano, superando in prestigio il livello raggiunto dalle precedenti edizioni che si erano svolte a Monza. L’obiettivo delle Triennali di Milano è quello di essere uno specchio della civiltà contemporanea “nelle sue forme più nobili e significative”. Gli architetti italiani e vari esperti avevano avuto un ruolo molto importante. I professionisti, oltre a presentare le opere, avevano aiutato coloro che volevano proporre in modo efficace il proprio progetto.

Si erano costituite delle commissioni tematiche per valutare i lavori alla luce delle nuove parole chiave: modernità e rinnovamento. Gli architetti e gli artisti, infatti, erano stati invitati a presentare “produzioni ancora esemplari per concezione e per tecnica”. Concludendo la presentazione della Triennale di Milano, Giò Ponti sottolinea il rapporto presente e futuro dell’evento con la città, della quale esalta l'”energia fattiva” e la “forza creatrice”. La Triennale, la Scala, l’Università e la Fiera in pochi anni avevano contribuito a rivoluzionare la vita culturale della città, nutrita anche dalla partecipazione dei cittadini “che avevano sempre saputo rispondere a tutti gli avvenimenti di natura sociale, morale, spirituale ed economica”.

Nello spostamento dell’Esposizione a Milano s’intravedeva anche la soluzione al problema di lontananza tra il grande pubblico e il mondo dell’arte che aveva preoccupato Beltrami. Nel 1925, con la nuova sede, nel centro di Milano, le distanze tra persone e luoghi dell’arte vengono accorciate. Il Palazzo dell’Arte risultava essere molto più comodo per molti cittadini che per motivi logistici o di tempo non potevano frequentare la Villa Reale di Monza. Si prevedeva quindi un maggior afflusso, considerato favorevolmente anche da un punto di vista economico, dal momento che si prospettavano maggiori guadagni sia per la manifestazione, che, indirettamente, per tutte le attività cittadine.

Relazione dell’Arch Carlo A. Felice. Allegato bollettino settimane del 7 giugno 1932

“Oltre allo scopo pratico e al fine commerciale, la Triennale ha anche un compito educativo, E non lo avrebbe potuto assolvere che parzialmente, troppo limitatamente, fino a che non fosse stato possibile convogliare verso di essa, facilmente, le grandi masse di pubblico. Quanti fra gli stessi milanesi non hanno mai trovato in passato la giornata per andare a Monza, o ci sono stati una volta tanto, di scappata, con la preoccupazione di perdere il tram del ritorno o di tornare a casa o in ufficio troppo tardi? Non parliamo dei forestieri e degli stranieri che soggiornando a Milano pochi giorni non potevano dedicarne uno intero fra andare e tornare alla Villa Reale e fermarcisi in tutto poche ore. Ora la Triennale, non solo è a Milano, ma nel cuore della città, a pochi minuti da Piazza del Duomo. I milanesi la frequenteranno assiduamente, chiunque arrivi di fuori non potrà esimersi dal vederla almeno una volta.”

1954: La X Triennale verso un’ ibridazione dell’arte

Il 5 ottobre del 1954, i rotariani si preparano a visitare la X esposizione universale alla Triennale. In questa occasione si considera il percorso fatto fino a quel momento ma allo stesso tempo c’è spazio per alcune considerazioni. Si prende atto della velocità dei tempi, soprattutto per quello che riguarda la moda femminile al quale la X edizione dedica una retrospettiva. Ma è la stessa velocità dei tempi che accredita l’Istituzione della Triennale che, come fa notare Gian Piero Bognetti, ha il compito di “ospitare ed esporre quello che risponde all’attimo fuggente”.

Giò Ponti, nella sua relazione definisce la decima esposizione della Triennale come una “manifestazione d’arte tipica di Milano”. Dove “vitale” significa che rappresenta i problemi estetici in rapporto con la vita, la cultura e i costumi della società contemporanea e “tipica di Milano” sottolinea l’impegno dei milanesi nel realizzarla. La Triennale si caratterizza per la sua modernità ed è in base a questa specificità che vanno formulati i giudizi.

Ma cos’è l’opera di un artista moderno alla Triennale dell’Arte? Un critico era rimasto deluso dalla scarsità di opere di pittura e scultura presenti all’Esposizione, ma, come afferma Ponti, non bisogna ricercare l’opera dell’artista “solo dove è opera di pennello e di stecca, ma in ogni campo in cui l’artista è intervenuto”, perché l’arte è un fatto indipendente dalla sua tecnica esecutiva. D’altra parte si potrebbe obiettare che i pezzi esposti alla Triennale siano oggetti d’uso e non delle “creazioni” e quindi la loro forma non apparterrebbe all’arte.

A questa osservazione Giò Ponti risponde che “la bella forma, è un fatto esclusivamente d’arte, un’esigenza mentale, perchè gli oggetti funzionano indipendentemente dalla forma. un brutto coltello taglia infatti come un coltello bello”. Non a caso nella giunta della X Triennale ci sono due architetti, Carlo de Carli e Marco Zanuso che provengono da campi diversi e che si sono dedicati in maniera particolare al disegno dell’industria. Entrambi hanno creato modelli per la produzione industriale. Accanto a questi due architetti ci sono anche due artisti puri come Lucio Fontana e l’astrattista Mario Radice.

Il disegno industriale

Il rapporto tra forma e funzione degli oggetti non è un rapporto di condizione, ma un rapporto mentale. E’ una necessità mentale che un oggetto funzionale sia anche esteticamente bello. Secondo Giò Ponti sarà il “disegno industriale” a rappresentare la sintesi tra stile e funzionalità. Il “disegno industriale” porta al centro la questione dell’arte legata alla vita, che si pone in continuità con l’idea della massima espressione della cultura di ciascuna epoca. In questo senso anche il mecenate industriale è una figura colta, generoso soprattutto nelle opere e che nel tempo sviluppa uno stile riconoscibile. Un esempio tra tutti Adriano Olivetti che, tra i primi, ha saputo unire e valorizzare esigenze estetiche e industriali. Questa visione ha avuto come risultato una cifra stilistica che si ritrova in tutto ciò che gravita attorno al suo nome: uffici, industria, produzione e macchine.

Un giro per la Triennale di Giò Ponti

Secondo Giò Ponti, nell’800 gli edifici avevano perso spontaneità, gli opifici industriali erano stati costruiti “alla maniera del Castello Sforzesco”, e case e villette alla “maniera del castelluccio”. La IX Triennale del 1951 aveva reso omaggio a due architetti moderni, Giuseppe Pagano e Giuseppe Terragni, il primo era morto in un campo di concentramento a Mauthausen e il secondo era scomparso a soli 39 anni. Il lavoro di questi due professionisti aveva rappresentato la risposta alle esigenze estetiche e funzionali di questi anni. Gli architetti avevano la necessità di ritornare a ricondurre il loro lavoro alla sua funzione naturale, “alla sua espressione vera, alla sua verità”.

Alla Triennale del 1951, le linee erano diventate pure e naturali, come se l’architettura fosse senza architetti; anche la grafica aveva cominciato ad avere un posto di rilievo, benché a volte fosse accolta con scetticismo perché percepita come lontana dal reale. A tal proposito Ponti ne aveva sottolineato invece la modernità. In queste forme l’architetto vedeva “i capitoli successivi delle meravigliose leggende”, che avrebbero potuto applicarsi nel campo dell’industria e della tecnica. La Sezione Lavoro si concentrava sulla ricerca rivolta agli ambienti di lavoro, in particolare agli uffici che erano considerati i luoghi più trascurati nonostante vi si passasse la maggior parte del tempo della giornata. Nella visione di Giò Ponti l’Architettura non era fine a sé stessa, ma rappresentava la misura della vita, dei popoli e della civiltà nella quale si sviluppava.

Bollettini

Bollettino n. 223, 19 giugno 1951

“Nell’ottocento molta architettura ha perso la sua spontaneità, cioè la sua sincerità: basti vedere da noi opifici industriali alla maniera del Castello Sforzesco, e case e villette alla maniera del castelluccio; e case d’affitto camuffate alla maniera del palazzo (…) .” Gli architetti moderni hanno detto: riconduciamo l’architettura a questa obbedienza, alla verità, alla funzione esatta e naturale alla sua sostanza, alla sua espressione “vera , alla sua verità” (…). A questa segue una mostra grafica, ossia che si esprime soltanto “per linguaggio grafico”, (…) Molti dicono: io sto solo col passato. Ma perchè? La vita ci offre una storia precedente dell’ingegno umano; ci offre i capitoli successivi delle meravigliose leggende; noi dobbiamo sentirci compagni di tutto questo creare dell’industria e della tecnica e vedere di adottare subito queste cose”.

Bollettino n. 382, 5 ottobre 1954

“A questo sorpassare, che non potrebbe essere mai un dimenticare, a Milano abbiamo del resto trovato già un rimedio. Questo palazzo della Triennale che si affaccia su uno dei più begli sfondi che la città possa offrire, ha il compito appunto di ospitare ed esporre solo quello che risponde all’attimo fuggente, e dovrà essere in tre anni tutto cambiato, a pena di smentire lo scopo dell’istituzione. Ma nel magnifico chiostro degli Olivetani di S. Vittore, un monumento salvato e ripristinato per merito soprattutto del nostro Ing. Ucelli (applausi) egli ha voluto approntare il museo tutto ciò che nella tecnica, se si astrae dall’ultima foggia, è già divenuto antico. E’ idea del nostro Ponti che sarebbe bello assicurare i pezzi migliori che l’odierna Triennale espone in fatto di arte applicata ed anzi immedesimata nella tecnica a quell’altro museo che è un po’ il premio e la garanzia dell’immortalità. E sarebbe ancor più bello che la cosa venisse effettuata per l’attività che più strettamente li riguarda, per munificenza di singoli rotariani”.

Bollettino n. 378, 7 settembre 1954

“La Triennale di Milano nella sua decima edizione ha provato ancora una volta la sua validità di manifestazione vitale d’arte, di manifestazione internazionale, di manifestazione milanese. Manifestazione vitale nel campo delle arti perché essa rappresenta problemi estetici concretamente, in rapporto alla nostra vita, civiltà, cultura e costume in tutti i suoi settori, di lirismo (forma e colore) e di tecnica. (…) Essa è la manifestazione tipica di Milano perché sono i milanesi a farla, per fatto effettivo e per diritto naturale poiché è in Italia la città qualificata per la Triennale, e le altre non lo sono, perché il suo interesse per le arti è il più efficiente perchè le sue produzioni moderne d’arte e quello dell’industrial design perché qui infine sono a cominciare da “Domus”, le riviste e le edizioni che hanno rappresentato fin dall’inizio e presentano queste attività in Italia e all’estero. (…)”.

Bollettino n. 378, 7 settembre 1954

“Qui si acconcia un’altra chiarificazione poichè qualcuno può dirci che le cose presentate alla Triennale sono così d’uso e che quindi la loro forma deriva dalla funzione non da creazione, e che in conseguenza la loro forma non appartiene all’Arte. Rispondo che la bella forma di questi oggetti (quando è raggiunta) è invece un fatto esclusivamente d’arte in quanto quegli oggetti possono funzionare indipendentemente dalla forma. Un brutto coltello taglia quanto un coltello di bella forma.(…).

E’ per questa ragion d’arte che particolarmente davanti a voi rotariani e non ai soli industriali mi piace dire che l’interesse più attuale della Triennale, il punto sul quale far convergere la nostra attenzione è il cosiddetto “disegno industriale”, dal quale, conseguenza importantissima, deriverà il nostro stile nell’espressione più elevata della nostra civiltà”.